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Complesso Borromeo d’Adda

 

La presenza di un edificio nobile di proprietà d’Adda risale all’inizio del XVIII secolo. La villa, con pianta a “U” e facciata rivolta al paese, si trovava dove ora vi è la sede del Comune. Questo primo palazzo rimase immutato fino agli interventi dell’architetto Balzaretto fra il 1850 e il 1855, quando abbattuto il corpo centrale, si fece spazio alla cancellata panoramica dell’ingresso padronale. La portineria occupava la palazzina di destra mentre a sinistra veniva “inserita” la cappella inaugurata nel 1853. I due corpi più antichi mantennero l’apertura centrale a serliana, soffitti incannucciati o con mattoni a vista e altri dettagli settecenteschi. Attualmente sono adibiti ad uffici comunali.

La residenza del nobile Abate Ferdinando d’Adda situata sulla collina, denominata “la Montagnola”, venne realizzata nella seconda metà del 1750. La planimetria presentava un corpo centrale su tre piani e due ali laterali su un unico livello.

Passata in eredità da Febo d’Adda, marchese di Pandino, al suo secondogenito Giovanni, la Montagnola sarà oggetto di trasformazioni con gli interventi del Balzaretto tra il 1845 e il 1855. Egli, sistemati i giardini e il parco, modificò la villa con l’apertura di un ingresso verso il paese, coperto da un loggiato, e chiuse con vetrate il portico a tre campate che dà verso il parco.

 

Pianta del parco e del complesso Borromeo d’Adda

            1. Villa Borromeo
            2. Le scuderie
            3. Cappella Vela

 

Degli abbellimenti nelle sale rimangono delle tracce a cui si sovrappongono i successivi restauri voluti da Emanuele d’Adda, unico erede di Giovanni, che commissionò all’architetto Alemagna. La facciata sud della Montagnola si ingentilì con l’aggiunta di un balcone decorato con balaustre in pietra, posizionato sopra la loggia del corpo centrale. Vennero aggiunti anche dei profili con elementi a conchiglia, cancelletti e balconcini in leggiadro ferro battuto. Il rifacimento e l’innalzamento di parte dei corpi laterali resero la villa sempre più decorata secondo il gusto barocchetto-rococò dell’epoca. Inoltre venne creato il parterre davanti alla facciata nord, con fiori e aiuole di bosso, delimitato da un’elegante ringhiera. Alemagna inserì anche lo scalone di accesso al piano delle camere e avanzò il pian terreno realizzando un luminoso salone dagli angoli arrotondati. In più l’architetto dotò la villa di un innovativo impianto di riscaldamento ad aria calda ancora oggi conservato nel seminterrato dove si trovano le caldaie.

Nel 1908 si edificò portineria laterale detta “il Ravanello”.

Il complesso d’Adda nel 1911 passò in eredità ai Borromeo che ne fruirono fino agli anni ottanta quando la proprietà venne acquistata dal Comune di Arcore.

 

LA FAMIGLIA D’ADDA IN ARCORE

La famiglia d’Adda che per secoli ha legato il suo nome alla città di Arcore, è stata una dinastia di mercanti e banchieri ben radicata nella città di Milano, la loro importanza nel territorio della Brianza è però antecedente la loro posizione di spicco nella città meneghina.

Infatti assunsero nella capitale del ducato posizione di spicco solamente con la fine del periodo sforzesco, consolidando e ampliando le proprie risorse economiche fino al punto di potersi permettere di concedere prestiti allo stesso Stato.

I d’Adda sono stati definiti come “la famiglia di mercanti più attiva e potente dello Stato milanese”.

 

Con Pagano II e il cugino Giovan Agostino si decise che alla potenza economica andasse correlata una qualifica nobiliare. Per questo motivo dal 1538 la famiglia iniziò ad acquistare terre e feudi.

L’acquisto di terre (fenomeno che coinvolgeva gran parte del ceto facoltoso di Milano) fece sì che la famiglia diventasse oltre che di mercanti e banchieri anche di proprietari terrieri, con tutto ciò che ne consegue.

Questo non fu però sufficiente per conquistare il titolo tanto agognato, e nemmeno l’acquisto di una cappella gentilizia in una delle chiese cittadine. L’unico motivo che gli valse la conquista del titolo fu la grande abilità negli affari della famiglia e gli ingenti prestiti alle casse statali, dissanguate dalle ingenti spese belliche.

Da tre dei sette figli di Pagano I derivano le tre diramazioni principali; i d’Adda Salvaterra da Gaspare, i Marchesi di Pessano e i Marchesi di Pandino da Rinaldo e da Francesco I i Conti di Sale.

Tra i successori di Francesco d’adda ricordiamo Gian Agosto in quanto uomo di grande cultura, molto legato a Pietro Aretino il quale sembrerebbe gli avesse fatto dono di un Raffaello, del quale, nel corso dei secoli, si son perse le tracce.

 

Fratello di Gian Agosto è Costanzo II d’Adda, il quale viene ricordato, oltre che come grande uomo della Milano Cinquecentesca, per la cura del palazzo di famiglia a Settimo Milanese. Lasciò al figlio Francesco II, legittimato in punto di morte, tutti i suoi beni, mobili e immobili, che tra le altre cose, comprendevano i beni arcoresi della famiglia.

Si suppone che sia durante la vita di Francesco II d’Adda che venne edificata la villa originale (l’edificio che oggi ospita gli uffici comunali). Infatti è in un documento catastale collocabile temporalmente a cavallo tra ‘500 e ‘600 che troviamo la prima citazione della villa con giardino sulle proprietà dei d’Adda ad Arcore. Il catasto del 1558 non rilevava nessun edificio su quei terreni.

Ridottosi l’impegno della famiglia nel settore mercantile e bancario, come molte altre famiglie di possidenti feudali, i d’Adda si trasformarono in meri amministratori dei loro patrimoni fondiari.

È in questo periodo che le famiglie nobili riscoprono le campagne sia come luogo di investimento agricolo che come luogo di residenza seppure stagionale, e come luogo dove ricevere gli ospiti nei mesi estivi e caldi, preferendo l’aria salubre della Brianza a quella cittadina di Milano.

Alla morte di Francesco le proprietà passarono ai nipoti Francesco e Ferdinando.

In seguito venne tutto ereditato dal figlio di Francesco: Costanzo IV. Questi fu un personaggio di grande spicco nella società milanese dell’epoca sia per le cariche politiche di spicco da lui ricoperte (fu membro dei Sessanta decurioni fino alla sua morte), sia per la sua erudizione e dedizione all’arte; trasformò il palazzo di via Olmetto in una vera e propria galleria con collezioni di quadri, medaglie e libri, che divenne così famosa da attirare i visitatori di passaggio a Milano.

Dei tre figli l’erede designato fu Francesco IV mentre Ferdinando venne avviato alla carriera ecclesiastica, diventando Abate. Il terzo, Lorenzo intraprese la carriera militare ma morì a soli trent’anni.

Francesco d’Adda morì senza eredi maschi e i suoi beni passarono al fratello abate e in piccola parte al cugino Febo d’Adda del ramo dei marchesi di Pandino.

L’Abate Ferdinando d’Adda con la morte di Maria d’Adda, con la quale si estingue la linea di di discendenza dei Conti di Sale, entra in possesso di un’enorme fortuna, che seppe aumentare grazie ad un’oculata amministrazione.

Nel 1749 inoltre ebbe la commenda dell’abbazia di Sant’Antonio di Carpianello, commenda che gli assicurava una cospicua rendita e nessun impegno gravoso. Come alcuni dei suoi predecessori fu uomo di grande cultura.

All’abate si deve la costruzione dell’attuale Villa Borromeo d’Adda a metà Settecento.

Fu inoltre il fondatore della Causa Pia d’Adda, che si occupava dell’assistenza sanitaria agli ammalati, al soccorso di vedove e orfani, all’istruzione e alla fornitura di una dote alle fanciulle nubili. A questa istituzione andò grossa parte dei beni dell’abate alla sua morte. La restante parte di proprietà invece andarono al cugino Febo d’Adda, che già aveva ricevuto qualcosa dal fratello dell’Abate, Francesco IV.

Febo d’Adda riunì le proprietà arcoresi dei d’Adda, inoltre divenne patrono della Causa Pia d’Adda fondata dall’abate Ferdinando.

Ricoprì svariate cariche pubbliche sia sotto i Francesi che sotto gli Austriaci. Fu inoltre discepolo e amico del Parini, il quale gli dedicò la bellissima ode Alla Musa.

Alla sua morte le proprietà di Febo passarono prima a Giovanni d’Adda che fece costruire la Cappella Vela per la moglie morta giovane Maria Isimbardi, e successivamente al figlio Emanuele che invece fece costruire le Scuderie. A questi due personaggi si deve anche l’attuale aspetto della villa e del parco.

Emanuele fu deputato alla Camera e in seguito Senatore con nomina da parte di Giolitti. Era famoso per il suo interesse per le cause sociali, infatti promosse numerosi progetti di opere edilizie, oltre a fornire alloggi popolari agli operai.

Lui e la moglie Beatrice Trotti Bentivoglio erano conosciuti per la loro filantropicità e la fedeltà alla Causa Pia d’Adda fondata dall’abate Ferdinando.

Erano inoltre socialmente ben inseriti, infatti, frequentarono la regina Margherita e il re Umberto I, invitati nella Villa Reale di Monza.

Al primogenito Vitaliano invece Febo lasciò le proprietà di Cassano d’Adda. Vitaliano però non ebbe eredi maschi e la figlia Costanza convolò a nozze con Carlo Borromeo Arese al quale diede un figlio: Febo Borromeo d’Adda.

Questi alla morte senza eredi di Emanuele d’Adda ricevette i possedimenti di Arcore e li trasmise l figlio Emanuele. La villa dopo la morte del conte Febo Borromeo d’Adda però visse uno stato di progressivo abbandono fino all’acquisizione della stessa dal Comune di Arcore nel 1980.

 

LA CAPPELLA VELA

 

Nel 1849 Giovanni d’Adda , nel desiderio di ricordare la moglie Maria Isimbardi morta l’anno precedente alla tenera età di 22 anni, commissionò all’amico architetto Giuseppe Balzaretto la costruzione di una cappella commemorativa.

Nell’idea di Giovanni d’Adda la cappella non avrebbe ricoperto unicamente una funzione commemorativa, sarebbe infatti stata destinata anche alla celebrazione della messa.

La presenza di questa cappella-oratorio è infatti segnalata sul lato della strada dall’iscrizione “AVE MARIA” posta sul timpano dell’ingresso “pubblico”.

I lavori giunsero al loro termine nel 1853 con la consegna e installazione delle scultura di Vincenzo Vela .

 

Questa cappella, ispirata al battistero bramantesco rinascimentale di San Satiro a Milano, ha, come il suo modello, pianta ottagonale e in lei forme, giochi di luce e equilibrio suggeriscono il mistero insondabile della morte e la sua serena accettazione nella fede.

Per questi motivi, Carlo Borromeo Romili, in visita pastorale ad Arcore nel 1856, definì questo capolavoro di Architettura, scultura e decorazione come elegantissimum sacellum.

Francesco Tedeschi a proposito della struttura architettonica diceva: «Il concetto ispiratore che è all’origine della cappella[…], si può identificare nell’intenzione di rappresentare il sentimento del dolore  nel duplice valore, affettivo, rivolto quindi ad un intimo raccoglimento  nella afflizione di chi prosegue a vivere, e religioso, nella comprensione della necessità di rivolgersi a un mondo di valori superiori da cui ricevere non solo consolazione[…]. Il monuemnto è un edificio sacro, che risponde ai criteri della cappella privata, pur dovendo, per motivi di culto, essere aperta al pubblico[…]. L’altare ne è il naturale fulcro, ma la pianta ottagonale, dando vita ad uno spazio armonico di derivazione rinascimentale e classica, risale a ritroso al modello del tempio votivo: motivi pratici e ideali spiegano la scelta della pianta centrale, rivolta a valorizzare l’ambiente nella sua condizione di interno architettonico vuoto[…], senza offrire precedenze a un percorso che conduca all’altare.»

Tre sono le opere di maggior rilievo nella Cappella Vela. Due sono le opere scultoree di Vincenzo Vela: il monumento funebre per Maria Isimbardi e la Madonna addolorata posta sopra all’altare.

La terza è invece il bassorilievo di Lorenzo Vela, fratello maggiore di Vincenzo, il quale si è anche occupato della decorazione interna della cappella.

 

IL MONUMENTO FUNEBRE PER MARIA ISIMBARDI

Il monumento sepolcrale per Maria Isimbardi rappresenta al meglio la qualità stilistica raggiunta da Vincenzo Vela attorno alla metà del secolo. Intitolata inizialmente Donna compianta ne’ suoi estremi momenti, la grande opera scultorea realizzata in marmo rappresenta con grande efficacia realistica i momenti estremi che precedono la morte della donna.

Insieme agli ultimi istanti di vita della moglie l’opera trasmette indirettamente anche lo strazio del marchese Giovanni d’Adda, rendendone lo spettatore partecipe. Il letto della morente è incorniciato da un complesso scenografico di stampo barocco e la donna è al centro di un complesso scultoreo triangolare con al vertice due angeli che sorreggono i tendaggi che fanno da sfondo alla figura drammatica.

 

A proposito dell’opera Tedeschi si esprime in questo modo: «La giovane donna giace […] distesa con naturalezza. Il volto appare sereno e rassegnato, più che sofferente; […] il distacco dagli affetti terreni è fornito dalla posizione delle mani, una posata lungo il fianco, col palmo rivolto verso l’alto, quasi rivolta ai suoi cari […]; l’altra stringe delicatamente fra le dita un crocifisso, tramite fra […] l’esistenza terrena e l’aldilà […].»

 

LA MADONNA ADDOLORATA o MATER DOLOROSA

Quest’opera scultorea del Vela è collocata sopra l’altare della cappella.

Mentre nel monumento funebre sopra citato si riconosce chiaramente la tensione dell’autore verso una scultura moderna che prende spunto dalla pittura, la statua della madonna è specchio della tradizione scultorea tipicamente rinascimentale. L’opera si inserisce perfettamente all’interno dello stile rinascimentale della cappella.

La figura è rappresentata seduta e tutto è composto, quasi idealizzato. L’attenzione si concentra sul volto della madonna, che, in atteggiamento mistico, volge gli occhi al cielo. Il volto della donna è giovane e i lineamenti non trapelano dolore, che invece viene rappresentato dall’autore sotto forma di corona di spine tenuta in mano dalla madonna.

La composizione del Vela, grazie ad un senso di tranquillità e compostezza trasmesso dalla figura, sembra alludere al mistero del dolore, ma ancora di più alla volontà «di rispondere alla dimensione privata e meno eclatante del lutto.»

 

RIPOSO DURANTE LA FUGA IN EGITTO

L’immagine del bassorilievo realizzato da Lorenzo Vela per l’altare si collega al tema dei rapporti famigliari e a quello della provvisorietà della vita terrena nell’attesa della sua piena realizzazione dopo la morte.

«Questo è forse il momento in cui è trasfusa la dimensione più privata dell’intero monumento, con l’adombramento della famiglia del committente nella Sacra Famiglia, i tre personaggi sono rappresentati immersi in un paesaggio descritto con una finissima sensibilità atmosferica e naturalistica, tesa a rendere con trapassi impercettibili un paesaggio naturale [..]. Qui il riferimento quattrocentesco allo stiacciato diventa lo strumento di un’indagine naturalistica e una sfida alla capacità della scultura di riprodurre la brulicante realtà naturale nello spessore sottile del rilievo, perdendo completamente quella dimensione di recupero storicista a freddo che caratterizza invece l’apparato decorativo.»

 

LA DECORAZIONE

Lorenzo Vela si occupa anche della decorazione interna della cappella.

Vi è un complesso apparato di decorazioni e fregi realizzati con stucchi e bronzi che contrappongono fondamentalmente due temi: la passione salvifica di Cristo e l’idea del male, l’Inferno.

Si può notare in molte delle decorazioni la predilezione del maggiore dei Vela per i motivi Animalistici.

Nel fregio del cornicione che separa i due livelli principali della cappella si possono osservare otto teste bronzee, una per lato dell’ottagono. Secondo gli studi di Francesco Tedeschi si possono identificare i quattro volti femminili come le tre Marie e la Veronica (altri vi riconoscono invece le tre Marie e la Madonna), mentre i volti maschili sono riconducibili a Cristo, i due San Giovanni e San Carlo (altri propongono invece Dio Padre, San Carlo, San Giovanni Battista e Cristo).

Figura di spicco tra le transenne del matroneo è l’angelo che abbraccia un’anima a simboleggiare l’accesso dello spirito della defunta in cielo.

 

GLI AUTORI

VINCENZO VELA

Nato a Ligornetto nel 1820 da una famiglia di contadini venne avviato alla professione di scalpellino a 9 anni e lavorò nelle cave di Besazio e Viggiù.

In seguito si trasferì dal fratello Lorenzo a Milano, dove studiò presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Intanto lavorava nella corporazione dei marmisti del Duomo di Milano. Si perfezionò con Benedetto Cacciatori e con Luigi Sabatelli (pittore), venendo influenzato dalle ricerche di Lorenzo Bartolini e dalla pittura di Francesco Hayez.

Dopo aver ottenuto i primi riconoscimenti a Milano gli venne commissionata la realizzazione di due opere scultoree per la cappella dei d’Adda ad Arcore.

Nel 1852 si rifugiò a Torino costretto a fuggire da Milano a causa della sua partecipazione ai moti antiaustriaci, e lì rimase fino al 1867; in questo periodo gli vengono commissionate numerosi monumenti funebri e opere pubbliche, tra le quali ricordiamo il monumento a Gaetano Donizetti a Bergamo, il monumento a Daniele Manin a Torino e quello a Vittorio Alfieri ad Asti.

Grande fama derivò allo scultore grazie alla presentazione del Napoleone Morente all’Esposizione Internazionale di Parigi nel 1867.

L’opera è conservata nel castello di Versailles e appare piuttosto come un uomo malato e sfinito, disilluso, con dipinta sul volto l’accettazione del suo destino ormai compiuto.

Nel 1867 da Torino torna nella sua Ligornetto per trascorrere gli ultimi anni della sua vita.

Per l’aperura del Gottardo nel 1882, realizzò l’alltorilievo Le vittime del lavoro, considerata il manifesto del realismo sociale, conservata alla Galleria Nazionale di Arte Moderna a Roma.

Vincenzo Vela spirò nel 1891 a Mendrisio nella casa che sarà lasciata in eredità dal figlio Spartaco Vela alla Confederazione Svizzera. Questa villa oggi è il Museo Vincenzo Vela e rappresenta una delle maggiori case-museo del XIX secolo. Nelle sue stanze trovano ricovero molte opere e lavori preparatori di Vincenzo Vela, del fratello Lorenzo Vela e anche del figlio Spartaco Vela, che fu pittore.

 

LORENZO VELA

Fratello maggiore di Vincenzo, Lorenzo iniziò la sua carriera come tagliapietre nelle cave di Besaio e Viggiù. Divenne poi scalpellino e, trasferitosi a Milano, si specializzò presso la scuola di ornamenti dell’Accademia di Brera; nella quale insegnò “plastica ornamentale” dal 1860.

Lorenzo, considerato figura minore rispetto al fratello, fu un abilissimo decoratore di interni con una vera passione per i temi e i soggetti animalistici.

Di Lorenzo Vela sono le decorazioni del Palazzo Poldi Pezzoli e della Ca’ de Sass.

Il legame tra la famiglia d’Adda e i Vela è dimostrato oltre che dai fitti carteggi e dalle molte commissioni anche dal fatto che lo studio di Lorenzo Vela in via dell’annunciata 7 era di proprietà dei d’Adda.

 

GIUSEPPE BALZARETTO

Nato a Milano nel 1801, studiò a Pavia Matematica e si specializzò con l’ingegner G. F. Perego. A Balzaretto si devono i giardini di Porta Venezia, la Cassa di Risparmio e il Palazzo Poldi Pezzoli.

Divenne molto famoso per l’arte dei giardini. Infatti il suo primo incarico prestigioso fu la sistemazione del Parco di Villa Borromeo d’Adda ad Arcore.

Per la famiglia d’Adda inoltre si occupò dei lavori di trasformazione della villa “La Montagnola”, progettò la Cappella Vela, il palazzo di via dell’Annunciata a Milano e sistemò l’appartamento di Carlo d’Adda di via Manzoni.

 

LE SCUDERIE

 

 Le nuove scuderie, realizzate tra il 1894 il 1895, furono opera dell’architetto Alemagna che operò con un occhio alla bellezza e l’altro alla funzionalità dell’ambiente.

“Pavimentazioni non sdrucciolevoli, griglie scorrevoli… congegni speciali per le aperture a ribalta dei vetri…mangiatoie in ghisa smaltata…” (da Edilizia Moderna, Anno VII. Fasc. III, Mi 1898).

Il fabbricato si sviluppa su due piani, occupa circa 1120 mq di superficie e supera i 10 metri di altezza al colmo.

Intorno all’ampio cortile centrale interno sono disposti spazi, in origine adibiti a locali di servizio. Le rimesse per le carrozze e i calessi attestano i costumi e lo stile di vita dei marchesi d’Adda che, come afferma M. Rosa ne “I Marchesi D’Adda e la villa di Arcore”, frequentavano il re Umberto I e la regina Margherita con la nobiltà del territorio.

Il cortile interno offre una luminosità unica nel suo genere grazie ad una copertura innovativa in ferro e vetro appoggiata su quattro colonne cave in ghisa, poste agli angoli, che contengono i pluviali di raccolta delle acque piovane.

Al primo piano, oltre agli alloggi per gli stallieri, un intero lato era adibito a fienile (oggi accoglie la sala conferenze).

Al piano terreno, oltre alle poste per i cavalli, nei locali di servizio si trovavano i depositi per selle e finimenti e gli spazi per la ferratura.

La facciata principale presenta un ampio portale d’ingresso affiancato da eleganti lesene e un doppio ordine di finestre con cornici in pietra di Carona, rimarcate da modanature bianche in intonaco a rilievo.

Nel 2007 le scuderie recuperate sono state riaperte al pubblico per eventi espositivi e dal 2010 accolgono anche il Corso di Restauro dell’Accademia di Brera.

 

IL PARCO DI VILLA BORROMEO D’ADDA

Come sostenne il Barone Carl von Czörnig, segretario del governatore austriaco in Lombardia, le colline della Brianza sono il giardino della Lombardia, che è a sua volta definito giardino d’Italia.

In effetti, i giardini briantei potrebbero essere considerati la summa della storia del giardinaggio. Tra il ‘600 e il ‘700 l’attenzione per il giardino arrivò a condizionare le scelte architettoniche riguardanti la costruzione delle ville. Divenne fondamentale la ricerca di un punto d’osservazione, o più propriamente di autentica contemplazione del giardino e cambiarono i rapporti tra interni ed esterni, soprattutto tramite la costruzione di portici e saloni aperti.

Nel periodo compreso tra il XV ed il XVII secolo i giardini “all’italiana” e “alla francese” erano universalmente accettati. Essi mettevano in risalto un attento e rigoroso controllo sulla natura, tramite composizioni geometriche e molto curate.

Questa tendenza cambiò nell’800, con l’ascesa del giardino “all’inglese” (anche detto “anglo-cinese” considerati la grande influenza orientale e i legami con la pittura e con l’esotico), che portò la natura a liberarsi da qualsivoglia formalità o controllo. Questa liberazione da forme e schemi non lo privò però di una sua utilità che andasse oltre alla valenza estetica; era infatti un importante centro di produzione ortofrutticola, per il consumo ma in particolare per la vendita.

Ercole Silva introdusse il primo esempio italiano di “giardino paesaggistico”, portando il modello inglese nella sua villa a Cinisello. Il parco di Villa Borromeo d’Adda fu uno dei tanti a subire le influenze della tendenza introdotta da Silva.

Iconica da questo punto di vista è la Villa Reale di Monza, che più di tutte evidenzia questo passaggio da uno stile all’altro, con un giardino formale sul fronte e ai lati e un giardino informale sul retro.

Con l’ingresso nel XX secolo, e il processo d’industrializzazione che si espanse a macchia d’olio in tutta Europa, il giardino-Brianza subì gravi mutilazioni, e di conseguenza le ville che mantennero le proprie aree verdi furono considerate delle vere e proprie oasi, mantenendo vivo il ricordo del passato.

Ancora una volta, tra queste compare Villa Borromeo d’Adda.

Concentrandosi nello specifico su quest’ultima ci sono stati, nel corso della storia, dei momenti chiave che hanno portato il suo meraviglioso giardino ad essere quello che possiamo ammirare tuttora.

Tra il XVI e il XVIII secolo scarseggiano le notizie riguardanti le aree verdi; per avere le prime informazioni importanti è necessario attendere il 1808, anno in cui venne effettuata una planimetria successivamente riportata da don Mario Rosa nel suo volume del 1940 I marchesi D’Adda e la villa d’Arcore.

Successivamente alla planimetria del 1808 l’architetto Giuseppe Balzaretto, su commissione di Giovanni ed Emanuele d’Adda, realizzò delle migliorie al parco, unificando i due giardini preesistenti appartenuti a Ferdinando e Febo d’Adda e soprattutto creando il “giardino all’inglese” che fa da sfondo alla villa.

Dopo il 1880 Emanuele d’Adda e l’architetto Emilio Alemagna ampliarono il parco, fino a renderlo pressoché uguale a come lo vediamo oggi. L’unica, grande differenza è l’aggiunta del parterre, introdotto nel 1908 in ricordo dei giardini all’italiana.

L’ultimo grande intervento risale al 1988, data di inizio del progetto di recupero e valorizzazione del parco ad opera degli agronomi Giovanni Sala e Giorgio Buizza, reso necessario dall’abbandono che aveva portato ad un evidente degrado. Il censimento che ne conseguì stimò la presenza di 6530 alberi, occupanti circa 2/3 del parco.

Analizzando il giardino è possibile individuare cinque grandi aree:

  1. Giardino formale (1908), situato nelle immediate vicinanze della villa;
  2. Giardino paesistico all’inglese, tra la villa e l’abitato di Arcore, caratterizzato da cannocchiali visuali ed alberi singoli, spesso monumentali, o gruppi di alberi (anche di provenienza esotica), alternati a zone aperte con vialetti pedonali;
  3. Boschi adulti, composti soprattutto da specie autoctone, ormai giunti a maturità;
  4. Bosco artificiale, relativamente recente, di quercia rossa (di origine americana), impiantato per sostituire un bosco preesistente composto da essenze locali (perlopiù castagni) poco redditizie;
  5. Zone umide, limitate alla sola presenza di due stagni a nord della villa. Negli anni Ottanta venne scavato un canale collegato al più settentrionale dei due, mentre recentemente l’altro è stato prosciugato.